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L'Artista Franco Fanigliulo


Luca Maciacchini è attore, scrittore, compositore, cantante. Di lui ricordiamo il libro Anima salva, scritto insieme a Matteo Borsani, sulle canzoni di Fabrizio De Andrè. Luca si è gentilmente prestato alla stesura di un articolo sull'opera di Fanigliulo.


Franco, o della rapidità

Percorso intorno all'opera di Franco Fanigliulo

"Le mani mi si muovon sulla testa
Poi si infilano nella tasca
Fanno giri nell'aria a inventare chissachè.
La bocca con più smorfie che sorrisi
Gli occhi aperti storti e chiusi a inventare espressioni per dirvi chi sono io…

Io canto ballo recito me stesso…

Buffoni, noi siamo il teatro che sempre replicherà…

(da "BUFFONE" - Fanigliulo-Borghetti,1979)

 

Raramente capita nell'ambito della canzone d'autore italiana di trovare così precisi riferimenti al "corpo" teatrale o "teatralizzato" e dunque in MOVIMENTO, come nei testi di Franco Fanigliulo, cantautore ligure che conosce la sua rapida ma intensa stagione d'oro verso la fine degli anni '70.
Le sue proverbiali performances canore di stampo teatrale (celebre quella di "A me mi piace vivere alla grande" al festival di Sanremo nel 1979) accompagnano brani di palese "rottura" rispetto a una certa tradizione canora.
La cosa non risulta di per sé nuova o unica, specialmente nel contesto dei di per sé dirompenti anni '70, dove il cantautore è centrale figura di riferimento non solo artistico ma anche politico.
Non frequentissima però, almeno in Italia, è l'alta qualità interpretativa che procura spessore ad un certo tipo di canzone, rendendo così il cantautore un fenomeno altamente istrionico (e in questo si evidenzia, nel caso di Fanigliulo, la matrice dei cantautori francesi, eccellenti "attori" di se stessi) che sente però i dubbi e le contraddizioni che minano inevitabilmente la coerenza di artista se costretto ai compromessi spesso inevitabili con l'"industria".
La coerenza: problematica peculiare di molti personaggi "rapidi" della canzone italiana (ad esempio Tenco, Ciampi, che anelano al successo ma reticenti alle logiche commerciali dell'industria) la troviamo anche, almeno come tema dichiarato, in Franco Fanigliulo; egli partendo da una dicotomia, per così dire, "naturalistica" fra mare e terra (nella sua esperienza di marinaio prima e di contadino poi) approda a questo secondo tipo di dicotomia, più complesso e problematico: fra ARTISTA e BUFFONE.
Non necessariamente i due termini si rivelano in toto positivi o negativi, anzi risultano come due ruoli interscambiabili, se l'artista che "inventa la verità" (contraddizione in termini) diventa un "buffone che canta banalità" e il Buffone si presenta come un artista puro che mai "cessa di essere sé" e che se copia, "copia soltanto sé".
La LEGGEREZZA e la RAPIDITA' (concetti tipici della poetica Calviniana espressi nelle "Lezioni americane") sono rese efficacemente dalle immagini pirotecniche delle mani che girano nell'aria, della bocca, dei verbi di moto quali cantare, ballare, recitare. L'artista è la "forma" che rischia di divenire sterile, il buffone è la "sostanza" che dunque affronta e sfida i pericoli e anche il rischio che il suo messaggio cada nel vuoto ("Non importa se ad ascoltarmi c'è una folla o solo te").
Sono per l'appunto l'"IO" e il "ME" o l'"IO" diviso; è un eterno gioco di sdoppiamenti e di identità, quasi pirandelliano, abbastanza tipico anche di molta arte degli anni '70; come dimenticare, ad esempio, il "Dialogo tra un impegnato e un non so" di Giorgio Gaber, tra un intellettuale testacchione che crede nei grandi ideali collettivi rivoluzionari e il Non so giudicato qualunquista che vive solo per i suoi "foruncoli" e che invece si interroga di cuore sul senso "fisico" delle sue azioni, lasciando da parte il cervello?
Anche musicalmente le ombre e le luci del "buffone" schietto ed autentico sono sottolineate dall'alternanza tra il modo minore della strofa e il modo maggiore del ritornello (tonalità di Sol minore che si tramuta nel più solare Sol maggiore) e dalle continue salite di tono verso il finale strumentale poi sfumato; a differenza dell'ironica solennità dell'"artista" tutta in un trionfale modo maggiore ma che poi si arresta su un non risolutivo accordo di dominante (accordo di LA 7 su tonalità di Re maggiore), come a dire che quel trionfo di cui egli si vanta non si è poi compiuto).

L'andare, il movimento, erano già comunque caratteristiche evidenti nell'album di debutto di Franco "MI ERO SCORDATO DI ME" (1977). Qui il comune denominatore dei brani del disco sembra essere l'atto dell'andare, leggero e rapido, come sopra accennato; ciò si presenta come una reazione onirica, fantastica, all'immobilismo che un domani senza raggi di speranza pregiudica. In pieno '77 il "domani" di una certa generazione appare per lo più senza grosse prospettive ("e domani come sempre sarà"), il "noi" non è rappresentativo di un collettivo rivoluzionario e ambizioso, semmai di quello nichilista peraltro ben rappresentato nei primi film di Nanni Moretti ("Ecce Bombo").
Si cerca però una saggezza tipicamente ancestrale e contadina di chi sa capire che il proprio mondo e la propria felicità sono da ricercare nel presente e nel contingente ("Il mio mondo è tutto qui").
La "rivolta" può dunque esserci nei "Voli" ideali ed astratti; probabilmente non è ancora arrivato il momento della forte dirompenza, non è ancora il momento di "vivere alla grande"…
In questo primo lp si notano anche le particolari modalità canore di Franco: estensione vocale molto ampia (specialmente verso le note acute), peculiarità di "rovesciare" le parole quasi "a cascata" (molto rapidamente in alcuni momenti)…tali caratteri vengono però usati in un contesto che col senno di poi si può definire acerbo e musicalmente teso verso il lato più melodrammatico e un po' retorico del sound degli anni '70.
Rapida però sarà l'evoluzione verso i lidi della "risolutezza", (dal punto di vista dei contenuti) e anche di un'estetica dei ruoli: oltre a quelli dell'"arte" che abbiamo visto, ci sono anche quelli concreti e combattivi.
Il primo di questi è il "Guerriero", che "lotta con la vita" ma sa anche prepararsi ad accogliere la "dama con la falce" - la morte- perché tanto sa che lottare contro di lei sarebbe una partita persa ed allora, a differenza di un disarmato Piero Ciampi ("la morte mi fa rabbia perché non la posso fregare!") saggiamente, sceglie di affrontarla chiedendole di accoglierlo dolcemente ("cerca solo di essere dolce/ contro te non lotterò"). E' un po' l'eco di Palazzeschi "Anche la morte ama la vita/ Non fare che la morte ti trovi già cadavere".

Poi un'altra figura importante è quella del "Chirurgo" : è il momento culminante, il punto d'arrivo o meglio di sublimazione dello sdoppiamento di partenza evocato nel titolo del disco "Io e me": dallo sdoppiamento si arriva alla molteplicità (altro concetto enucleato da Italo Calvino) delle tante tipologie dell'Uomo nel corso della Storia. L'"Uomo Nuovo" non è ancora nato, ma le sue caratteristiche in realtà, sono già emerse nel corso delle varie epoche e vicende; bisogna trovare qualcuno che le unisca e le incarni in una sola figura unica e molteplice allo stesso modo, qualcuno che sappia destreggiarsi all'interno della complessa realtà e che non si fermi di fronte ad un muro, ma trovi il modo per procedere "andando di lato o con una scala", che prenda la vita come una "palestra" e anche come un "libro di storia".
Unendo così tutte le caratteristiche positive già viste nel corso dei secoli (coraggio, gioia, sensibilità, altruismo, speranza, decisione, fermezza) si otterrà l'obiettivo di una natura umana non perfetta ma perfettibile, in un uomo che sa guardare la realtà con occhi nuovi, che sa anche dominare e non essere dominato dai sentimenti.
Il chirurgo rappresenta l'esatto contrario dell'ipocrisia e degli "sporchi ideali" che troppo spesso vengono rincorsi per bieca convenienza, come descritto ne "Il cane e il gatto".
Se il chirurgo rappresenta la speranza di innovazione razionale, dal punto di vista più evasivo si cerca, nel frattempo, di alleggerire la ricerca indossando un metaforico paio di occhiali colorati che trasfiguri la realtà in un paese delle favole dove si possa "girare in mutande", cioè nudi, liberi da schemi prefissati, e dunque finalmente "Vivere alla grande".
Nel suo brano più celebre Franco ci conduce per mano in un mondo stralunato, surreale, dove troviamo allegorie piuttosto irriverenti, da "Guglielmo che indossa un reggipetto" a "Gesù col suo clan di menestrelli", un principe ed una strega…immagini criptiche da filastrocca che si prestano a varie interpretazioni ma che comunque suonano beffarde in un contesto come quello sanremese, dove la canzone viene presentata con successo e dove generalmente si è troppo preoccupati di sfornare canzoni che non lasciano adito a dubbi e si vuole appunto solo "morire per amore…"

Non per questo però si chiude gli occhi su una realtà che troppe contraddizioni presenta ancora.
In epoca di riflusso, troppi ideali sono rattrappiti, troppe attese sono state deluse, troppe "navi" sono diventate "biciclette" e allora il risoluto invito di Fanigliulo è quello di stare in guardia e di richiamare ad una nuova adunata di una nuova forma di rivolta: "Ratatam pum pum" è un chiaro segnale di "All'erta!" "In guardia!" perché gli ideali e i sentimenti stanno rapidamente perdendo spessore, "non usano più" e prima che sia troppo tardi vanno ricercati e recuperati.
Ma si sa: oramai la "posizione" conquistata ci ha logorato, la coerenza di cui si dibatteva all'inizio ha subito una mutazione per cui ora è difficile rimettere in discussione le posizioni faticosamente acquisite (viene alla mente l'"idiozia conquistata a fatica" che Giorgio Gaber evidenzierà un ventennio più tardi) e allora di fronte al richiamo alla rivolta che si interrompe bruscamente con un "ahi!" di ripensamento, partono le domande circostanziali "Come farò, Chi lo sa, che ne so, si vedrà…"
Perché comunque il bilico decisionale è sospeso tra il passato e il futuro, cioè tra le nobili origini ("Ricorda o Signore di che razza è papà") e la meta a cui tutti si è destinati ("Uomo o ragazzo vecchio sarai") e che pertanto scoraggia gli animi meno arditi. I sentimenti dunque "non usan più", ora (ed il discorso è destinato a rimanere attuale) si investe tutto sulla "merce" per cui il "Monte di pietà" diventa il luogo dell'acquisizione di valore dell'unico capitale di cui si dispone, ma in realtà non si crede neanche troppo a questa prospettiva se ben presto poi "brucia tutto", e quindi il valore dei "pegni" si rivela assai effimero.
Il chirurgo è un personaggio di cui si auspica l'intervento per la creazione di un uomo nuovo, ma nell'opera di Franco compare fugacemente anche un'altra tipologia di "chirurgo", quello deforme e "gobbo" che "rimette al suo posto" coloro i quali hanno tentato di lottare per un ideale supremo di libertà, un desiderio di cambiare veramente la vita, ma che per l'appunto si è rivelato fallimentare ed ora vengono trattati quasi come "pazzi" cui si "ricuce il grembiale"; e così tutti i varii "Garibaldi" che cercavano la luna devono ora arrendersi all'evidenza perché la luna non c'è, le grandi lotte collettive hanno fallito e quella libertà o "libertè" che dir si voglia, l'hanno "acchiappata, rinchiusa e non è più tornata".
Ora la vita scorre in avanti monotona e saremo sempre pronti a trovarci dei surrogati esistenziali, come i viaggi in terre lontane per cercare se stessi (per cui è sempre pronto il "furgone dei traslochi") o l'intellettualismo un po' spicciolo dell'"avanguardia sociale": ora quelle prospettive evaporano nella nebbia di una cullante ninna-nanna, come sembra suggerirci l'armonia puntellata dalla celesta del brano, composto nella elementare tonalità di Do maggiore e la voce insolitamente sussurrata di Franco.

Nella "falsa libertà" del riflusso in cui "ognuno deve seguire il suo destino" (per dirla con un altro "rapido" della canzone d'autore, Gianfranco Manfredi) si sovvertono le speranze e, grottescamente, i ruoli: le tipologie allegoriche di "A me mi piace vivere alla grande" ritornano in "La libertè" con l'Olandesina che si innamora di Corrado, l'amica intellettuale che poi ci sta, e la perplessità di fronte agli ideali del passato ("verrà la pace…verrà il comunismo…e tutti risposero: Mah!") e anche il Nostro si sente spaesato in una realtà dove tutto è confuso e poco chiaro; si sente infatti biecamente usato e sfruttato dall'"industria" che dopo un exploit anche commerciale non gli concede altra possibilità.
"Basta con questo show" griderà pertanto Franco, meglio continuare anche nella penombra, ma dicendo le cose in cui si crede, cantando i veri valori anche scomodi ma di spessore, e poco importa se ci ascolterà "una folla" o "solo te".
Viene a mente una canzone di Pierangelo Bertoli dello stesso periodo intitolata per l'appunto "Riflusso" "Il buio ha preso il posto del coraggio del vedere/paura al posto della verità/…nessuno canta più di libertà…/ma potete forse farci rallentare/ però non vi crediate sia finita!"
Allora in nome di un'autenticità ormai privilegio di pochi vale la pena, come del resto tipico di altri grandi maestri (in primis De Andrè), volgere lo sguardo a quelli che, nonostante tutto, seguitano a farsi i fatti loro.
E' il caso di "Marco e Giuditta", un'anziana coppia di coniugi che al tramonto della loro strada decidono, d'improvviso una notte, di fare il bilancio della loro vita trascorsa insieme.
Più che l'esito della loro riflessione, a mettersi in evidenza è l'ansia di esser certi di aver vissuto intensamente la loro storia, di essersi amati davvero, anche se ormai la candela si è spenta e non si può "raccontare ciò che non senti più".
Ed è il caso de "La Giovanna", solitaria cinquantenne trasandata che sembra avulsa da tutto il resto del mondo, che vive in compagnia dei suoi gatti e cani e, come i personaggi del primo de Gregori, non è minimamente sfiorata dal mondo che le passa accanto, anzi sembra fusa con gli elementi della natura che la circondano e che passano e muoiono perchè "tutto è naturale", come è naturale per lei far l'amore nel bosco anziché tra quattro mura domestiche troppo logorate da un probabile quanto opprimente alone di aristocrazia in cui ella non si è mai riconosciuta.
Anche in questi due casi viene musicalmente confermata l'anima "gentile" di Fanigliulo: quando si tratta di meditazioni profonde sui sentimenti centrali dell'animo umano si utilizzano ritmi cullanti e meditativi, spesso in tempo ternario (6/8) e tonalità elementari di facile presa (La minore per "Marco e Giuditta" e Do maggiore per "La Giovanna"); in questo senso la parentesi rock di "Ratatam pum pum" sembra essere un po' un'eccezione, in realtà non proprio farina del sacco di Franco, ma della collaborazione artistica di Mauro Paoluzzi.

Il "teatro" di Franco, dicevamo dunque, cala il suo sipario molto, forse troppo rapidamente con l'improvvisa dipartita nel 1989 che vede così incompiuto il disco che esce postumo ("Goodbye mai").
Quel "mai" risolutivo è una volta di più indicativo di un artista coerente ma duttile, che ha capito il suo percorso e le modalità per affrontarlo secondo una saggezza dinamica e non statica pur riassumibile in alcune sentenze ("onesti sì politica mai", "poveri sì sporchi mai") che invita a non perdere tempo in invidie di alte posizioni ma semmai ad essere orgogliosi di dove si arriva ("guardati indietro avanti mai"), senza per questo "Fare il passo più lungo della gamba"; anche in una correttezza di fondo ("Al lavoro sono sempre puntuale") è possibile trovare il punto di partenza per arrivare fino in fondo, anche se la fine potrebbe giungere in fretta (triste verità, nel suo caso). In opposizione al "mai" resta il "sempre" delle repliche di un teatro di cui egli si è fatto "giullare" ironico e cupo (dialettica degli opposti) anche se un po' demodè. Se c'è dunque un "noi" che trionfa non è quello dei grandi slanci collettivi, ma è quello dei tanti "buffoni" o meglio "pazzarielli" che fanno un teatro che sempre replicherà.

 

Luca Maciacchini, Marzo 2005.

 
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